Premessa storica:
Il Sottogruppo sulla metodologia nelle Case rifugio nasce all’inizio del 2009, in modo occasionale ma fortunato, dal bisogno di SOS Donna di Faenza di attivare una struttura di ospitalità.
Antonella Oriani, presidente di SOS Donna, chiese che quei centri dell’Emilia-Romagna che da tempo avevano avviato un servizio di Ospitalità si incontrassero con operatrici di Faenza per mettere in comune i punti più importanti della loro metodologia e prassi concreta.
Mentre in questa scelta di SOS Donna si può ravvisare il valore di un forte riconoscimento delle competenze e delle diverse esperienze maturate alle quali si è di fatto attribuita una funzione “formativa”, d’altro canto il confronto che ne è derivato ha assunto nel tempo, per tutte le partecipanti, la valenza di una vera e propria “autoformazione in itinere”.
E’ nato così quello che poi è stato battezzato “Sottogruppo Metodologia nelle Case Rifugio” costituito da operatrici e volontarie rappresentanti dei centri di Reggio, Modena, Bologna, Ferrara, Parma, Ravenna, Faenza.
Fin dall’inizio, raccontandosi e mettendo in comune i primi materiali (relativi per esempio ai regolamenti delle Case, alla gestione dell’emergenza, alle convenzioni, ecc.) il gruppo ha apprezzato la ricchezza del confronto: infatti, la rilettura collettiva dei cardini metodologici si è presto intrecciata con la riflessione sulla valenza politica del nostro operare; passaggio di cui ciascuna ha avvertito il grande valore.
Le componenti del gruppo hanno espresso con agio le loro diverse esperienze, i vissuti che le hanno accompagnate e i vari modi di coniugare ideale politico e limiti, a volte anche molto gravosi, imposti dalla realtà.
Proprio perché impegnato nella riflessione sulla metodologia e sulla sua valenza politica, il gruppo ha sentito l’esigenza di riflettere e di prendere posizione sugli adeguamenti imposti dalla Direttiva regionale in materia di accoglienza in comunità di bambini e ragazzi relativa all’accreditamento (Delibera regionale 846 del giugno 2007) e di dare il proprio contributo in merito a questioni ritenute cruciali sul piano metodologico e politico.
Il gruppo, nato per rispondere a un bisogno specifico, si è via via configurato come uno spazio di elaborazione e riflessione condivisa, in cui produrre un pensiero aperto particolarmente significativo per chi corre il rischio di sentirsi schiacciato dalle incombenze della operatività quotidiana.
Il lavoro di questi due anni si è concretizzato nella costruzione di un questionario che, fotografando la realtà di ogni centro, consente di evidenziare affinità e differenze da cui partire per successivi approfondimenti. In ogni tematica affrontata, grazie al reciproco riconoscimento, le differenze, lungi dall’essere percepite come un ostacolo, sono state utilizzate come un valore e hanno sollecitato nuove domande, domande che sono la “miccia” della riflessione che il gruppo si propone di continuare nel 2011.
Alcune tematiche individuate per il lavoro nel 2011 sono:
- l’autonomia: come la intendono le donne e come la intendiamo noi
- la gestione del danaro e le sue implicazioni nel rapporto tra donna e operatrice
- differenze nell’organizzazione dei centri e le loro ricadute nel rapporto con le donne e tra le donne
- il rapporto dei centri coi Servizi Sociali e con le Forze dell’Ordine
- le convenzioni
(aprile 2011)
Riflessione del sottogruppo metodologia delle case rifugio sul tema dell’ autonomia:
(quale significato assume questo termine per le donne che sono ospitate al Centro, come lo intendono le operatrici e quanto queste visioni coincidano; quanta autonomia le operatrici sentano di avere nei propri centri antiviolenza e quanto i centri stessi possano dirsi autonomi nei rapporti con i Servizi Sociali e con gli altri soggetti istituzionali o della “rete”)
L’idea di autonomia alla quale le operatrici fanno riferimento nella relazione con le donne accolte, inevitabilmente a partire da sé non sempre coincide con quello che le donne stesse hanno. Riconoscere e gestire questo “scarto “ che ha evidenti ricadute sull’andamento del percorso della donna e può complicare molto il rapporto con lei, può essere molto faticoso e frustrante. Dell’autonomia vengono identificate due componenti che spesso non vanno di pari passo e frenano le donne nel percorso di uscita dalla violenza: una prima dimensione, più concreta, ha a che fare con il recupero di abilità o capacità temporaneamente abbandonate o con l’acquisizione di competenze nuove, competenze concretamente spendibili che si possono “apprendere con l’allenamento”, l’esperienza e se serve qualche facilitazione messa in campo dalle operatrici come parlare l’italiano, muoversi coi mezzi pubblici, fare una domanda di lavoro, portare i figli a scuola, etc. ed una seconda dimensione, più interiore, che ha che vedere con l’intimo di ognuna e sostiene le donne nel portare avanti un percorso di “ricostruzione e libertà dalla violenza” consentendo loro di perseguirlo con tenacia anche a costo di sacrifici importanti (come ad esempio accettare lavori pesanti, che non piacciono o non riconoscono la formazione e il valore professionale delle donne ma che permettono di essere autonome ed indipendenti e che per questo valgono la pena di essere portati avanti); attiene al rileggersi a partire da sé, legittimarsi, sentirsi “libera di”, la capacità di fare scelte responsabili e di vedere in sé delle possibilità, di sentirsi in grado di fare e di “essere intere” anche fuori dal ruolo di “moglie o compagna di”.
E’ emerso che il lavoro con le donne, oltre al raggiungimento di quella “autonomia concreta “ per altro sempre più difficile da realizzare sia per il momento socio-storico che stiamo vivendo sia perché in molte situazioni le risorse a disposizione sono davvero poche, dovrebbe centrarsi soprattutto sul ricostruire e accrescere l’autonomia interiore, sul promuovere una riflessione e un pensiero, una maggiore assertività poichè senza questo passaggio anche le conquiste concrete possono tradursi in un “fare mio malgrado” sterile o “obbligatorio”, che non restituisce energia ma diventa difficile da portare avanti nel tempo.
Certo è che i risultati concreti aiutano il percorso di ricostruzione interiore che ogni donna deve compiere mentre gli insuccessi spesso alimentano sentimenti di “fallimento e impotenza” fino a mettere in dubbio l’opportunità della scelta d’allontanamento operata. Considerando che siamo un centro antiviolenza, un passaggio temporaneo nella vita di una donna, un luogo di protezione dal quale ripartire con qualche sentimento e strumento in più e visto il livello d’emergenza in cui spesso si lavora, una delle conseguenze sta nel rischio che le operatrici tendano a spendersi nel lavoro con le donne con l’obiettivo di ottenere insieme a loro principalmente risultati pratici, letti come una “garanzia” e un “successo” per e nel lavoro con le donne stesse.
Anche nelle case di ospitalità diventa fondamentale promuovere l’autonomia, il fare da sé nell’organizzare il quotidiano, la gestione del proprio spazio, del budget settimanale a disposizione per la sussistenza, aspetti che sembrano mal conciliarsi con la dimensione del controllo da parte delle operatrici, un controllo che però diventa spesso “contenimento” necessaria in particolare nelle prime fasi dell’ospitalità, quando la donna può essere “disorientata” per il passaggio dalla più totale dipendenza-prigionia ad una dimensione in cui la sua facoltà di scegliere – fare – decidere viene riconosciuta e sollecitata. E’ decisivo lavorare sugli aspetti della fiducia che si crea tra ospiti ed operatrici, richiamandosi al patto iniziale che impegna la donna e noi, utilizzando il colloquio per esplicitare e sciogliere quei nodi che mai si risolverebbero attraverso forme di “controllo punitivo” .
In particolare all’inizio di un’ospitalità in casa rifugio, il rapporto con il Centro viene spesso simbolicamente vissuto dalla donna all’insegna di una quasi totale dipendenza: è l’operatrice che avvia o facilita i contatti con la rete esterna, eroga il sussidio, ascolta, raccoglie e cerca di dare risposte ai primi bisogni della donna…compie una serie di azioni “risolutive” che rischiano farla apparire agli occhi della donna, onnipotente.
Ma proprio l’obiettivo di riprendere in mano se stesse e la propria vita, impone la costruzione e il mantenimento della giusta distanza tra l’operatrice e la donna. E’ difficile ma assolutamente necessario porre attenzione a quest’aspetto: il nostro lavoro di sostegno, centrato sulla relazione che n’è premessa e strumento, se non è adeguatamente calibrato e valutato, può avere come esito una diversa forma di dipendenza, dalla dipendenza dal partner violento e maltrattante alla dipendenza dal Centro antiviolenza che incarna inizialmente la proiezione di “onnipotenza” dalla quale le donne ritengono di essere salvate.